...E DOVE SI SPINGE GEORGES
Georges Bataille
arteideologia raccolta supplementi
nomade n. 3 dicembre 2009
LE LEGGI DELL'OSPITALITA'
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[…] Oggi, le forme sodali, grandi e libere, della dépense improduttiva sono scomparse.
Tuttavia, non bisogna concluderne che il principio stesso della dépense abbia cessato di essere posto come termine dell'attività economica.
Una certa evoluzione della ricchezza, i cui sintomi hanno il senso della malattia e dell'esaurimento, sfocia in un disgusto di se stessi e nello stesso tempo in un'ipocrisia meschina.
Tutto ciò che era generoso, orgiastico, smisurato è scomparso: i temi di rivalità che continuano a condizionare l'attività individuale si sviluppano nell'oscurità e assomigliano a dei rigurgiti vergognosi.
I rappresentati della borghesia hanno adottato un andamento schivo: lo sfoggio delle ricchezze si fa ora dietro i muri, conformemente a convenzioni cariche di noia e deprimenti.
Di più, i borghesi della classe media, gli impiegati e i piccoli commercianti, accedendo a una fortuna mediocre o infima, hanno finito per svilire la dépense ostentatoria, che ha subito una sorta di lottizzazione e di cui non resta più che una massa di sforzi vanitosi legati a fastidiosi rancori.
Quasi senza eccezione, tuttavia, simili pose sono divenute la principale ragione di vivere, di lavorare e di soffrire di chiunque manchi del coraggio di votare la sua società ammuffita a una distruzione rivoluzionaria.
Intorno alle banche moderne come intorno agli alberi totemici dei Kwakiuti, il medesimo desiderio di offuscare anima gli individui e li trascina in un sistema di piccole pompe che li acceca gli uni contro gli altri come davanti a una luce troppo forte.
A pochi passi dalla banca, i gioielli, gli abiti, le vetture attendono dalle vetrine il giorno in cui serviranno a stabilire lo splendore accresciuto di un industriale sinistro e della sua vecchia sposa, più sinistra ancora.
A un livello inferiore, pendole dorate, buffets da sala da pranzo, fiori artificiali rendono dei servizi ugualmente inconfessabili a coppie di droghieri.
La gelosia da essere umano a essere umano si libera come presso i selvaggi, con una brutalità equivalente; solo la generosità, la nobiltà sono scomparse e, con esse, la contropartita spettacolare che i ricchi rendevano ai miserabili. 
In quanto classe che possiede la ricchezza, avendo ricevuto con la ricchezza l'obbligazione della dépense funzionale, la borghesia moderna è caratterizzata dal rifiuto di principio che oppone a questa obbligazione.
Essa si è distinta dall'aristocrazia per non aver acconsentito a spendere che per sé, al proprio interno, e cioè dissimulando le sue dépenses, per quanto possibile, agli occhi delle altre classi.
Questa forma particolare è dovuta, all'origine, allo sviluppo della ricchezza borghese all'ombra di una classe nobile più potente.
A queste concezioni mortificanti di dépense ristretta hanno corrisposto le concezioni razionalistiche che la borghesia ha sviluppato a partire dal XVII secolo e che hanno il solo senso di una rappresentazione del mondo strettamente economica, nel senso volgare, nel senso borghese della parola.
L'odio della dépense è la ragion d'essere e la giustificazione della borghesia; ed è al tempo stesso il principio della sua spaventosa ipocrisia.
I borghesi hanno utilizzato le prodigalità della società feudale come motivi fondamentali di accusa e, dopo essersi impadroniti del potere, si sono creduti, per la loro abitudine alla dissimulazione, in grado di esercitare una dominazione accettabile alle classi povere.
Ed è giusto riconoscere che il popolo è incapace di odiarli quanto i suoi antichi padroni; nella misura in cui, precisamente, è incapace di amarli, perché è loro impossibile dissimulare, per lo meno, un viso sordido, così rapace senza nobiltà e così spaventosamente meschino che tutta la vita umana, al vederlo, sembra degradata.
Contro di loro, la coscienza popolare è ridotta a mantenere in profondità il principio della dépense rappresentando l'esistenza borghese come il disonore dell'uomo e come sinistro annullamento.

LA LOTTA DI CLASSE
Costringendosi alla sterilità in fatto di dépense, conformemente a una ragione che tiene dei conti, la società borghese non è riuscita che a sviluppare la meschinità universale.
La vita umana non ritrova l'agitazione, adeguata a bisogni irriducibili, che negli sforzi di quanti spingono all'estremo le conseguenze delle concezioni razionaliste correnti.
Ciò che resta dei modi di dépense tradizionali ha preso il senso di un'atrofia e il tumulto suntuario vivente si è perduto nello scatenamento inaudito della lotta di classe.
Le componenti della lotta di classe sono date nel processo della dépense a partite dal periodo arcaico.
Nel potlatch, l'uomo ricco distribuisce i prodotti che gli forniscono altri uomini miserabili.
Egli cerca di elevarsi al di sopra di un rivale ricco come lui, ma l'ultimo grado di elevazione perseguito non ha altro scopo più necessario che di allontanarlo ulteriormente dalla natura degli uomini miserabili.
Così la dépense, benché sia una funzione sociale, sfocia immediatamente in un atto agonistico di separazione, di apparenza antisociale.
L'uomo ricco consuma la perdita dell'uomo povero creando per lui una categoria di avvilimento e di abiezione che apre la via alla schiavitù.
Ora è evidente che, dell'eredità indefinitamente trasmessa dal mondo suntuario antico, il mondo moderno ha ricevuto questa categoria, attualmente riservata ai proletari.
Senza dubbio la società borghese che pretende di governarsi secondo dei principi razionali, che tende d'altra parte col suo proprio movimento a realizzare una certa omogeneità umana, non accetta senza protestare una divisione che sembra distruttiva dell'uomo stesso, ma è incapace di spingere la resistenza più lontano della negazione teorica.
Dà agli operai diritti uguali a quelli dei padroni e annuncia questa eguaglianza  inscrivendo ostensibilmente la parola sui muri; tuttavia i padroni, che agiscono come se fossero l'espressione della società stessa, sono preoccupati - più gravemente che da qualsiasi altro pensiero - di far notare che non partecipano in nulla all'abiezione degli uomini da loro impiegati.
II fine dell'attività operaia è di produrre per vivere, ma quello dell'attività padronale è di produrre per condannare i produttori operai a una spaventosa degradazione;  infatti non esiste alcuna disgiunzione possibile tra la qualificazione ricercata nei modi di dépense propri del padrone, che tendono a elevarlo ben al di sopra della bassezza umana, e la bassezza stessa di cui questa qualificazione è funzione. 
Chi oppone a questa concezione della dépense sociale agonistica la rappresentazione dei numerosi sforzi borghesi tendenti al miglioramento della sorte degli operai non è che un'espressione della meschinità delle classi superiori moderne, che non hanno più la forza di riconoscere le loro distruzioni.
Le spese affrontate dai capitalisti per soccorrere i proletari e dar loro l'occasione di elevarsi sulla scala umana non testimoniano che di un'impotenza - per esaurimento - a spingere fino in fondo un processo suntuario.
Una volta realizzata la perdita dell'uomo povero, il piacere dell'uomo ricco si trova a poco a poco svuotato del suo contenuto e neutralizzato; gli subentra quindi una sorta di indifferenza apatica.
In queste condizioni, al fine di mantenere, a dispetto degli elementi (sadismo, pietà) che tendono a turbarlo, uno stato neutro che l'apatia rende persino relativamente gradevole, può essere utile compensare una parte della dépense che ingenera l'abiezione con una dépense nuova tendente ad attenuare i risultati della prima. Il senso politico del padronato congiunto a certi sviluppi parziali di prosperità ha permesso di dare talvolta un'ampiezza notevole a questo processo di compensazione.
E’ così che nei paesi anglosassoni, in particolare negli Stati Uniti d'America, il processo primario non si produce più che a spese di una parte relativamente debole della popolazione e che, in una certa misura, la classe operaia stessa è stata portata a parteciparvi (soprattutto quando la cosa era facilitata dall'esistenza di una classe tenuta per abietta di comune accordo, come quella dei negri).
Ma queste scappatoie, di importanza d'altronde strettamente limitata, non modificano in nulla la fondamentale divisione delle classi di uomini in nobili e ignobili.
Il gioco crudele della vita sociale non varia attraverso i diversi paesi civilizzati dove lo splendore insultante dei ricchi perde e degrada la natura umana della classe inferiore.
E’ necessario aggiungere che l'attenuazione della brutalità dei signori - che non interessa in fondo tanto la distruzione in se stessa quanto le tendenze psicologiche alla distruzione - corrisponde all'atrofia generale degli antichi processi suntuari che caratterizza l'epoca moderna.
La lotta di classe diventa al contrario la forma più grandiosa della dépense sociale quando è ripresa e sviluppata, questa volta a vantaggio degli operai, con un'ampiezza che minaccia l'esistenza stessa dei signori. […]

Brani da La nozione di dépense in Critica dell’occhio, Guaraldi Editore, Rimini 1972, pag. 166-171.
N.d.R. - Che Bataille abbia infine inteso svolgere le sue riflessioni sul comunismo limitatamente a quello prêt-à-porter degli anni 50 (La Souveraineté, ora in La Sovranità, ed. SE, Milano 2009) non intacca il merito di aver mantenuto, almeno nella nomenclatura, il termine "lotta di classe" come degno di essere considerato una questione essenziale della modernità ecc.
Tuttavia, quando qui, nella sua Souveraineté, si legge che il comunismo “riduce ogni uomo ad oggetto” (cit.p.157) [un luogo comune calzante e stringente proprio per la società capitalistica]; o, poco oltre che “a rischio di sembrare restrittivo… parlerò esclusivamente del maestro di Marx (Hegel)”… c’è da chiedersi se qui non si stia maneggiando disinvoltamente (creativamente?) una contraffazione divenuta “sovrana” al tavolo interimperialista della Yalta del 1945 (la redazione del suo testo sulla Sovranità è del 1953). D'altronde lui stesso dichiara che l’oggetto da cui trae le sue riflessioni sul comunismo è… una biografia di Stalin!  (cit.p. 70). Con ciò le sue riflessioni riguardano un oggetto diverso da quello dichiarato o presunto: parla di comunismo ma pensa a Hegel e Stalin... Noi, per parlare di Marx avremmo tratto da Marx...

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2 CONTRIBUTI (di classe) ALLA NOZIONE DI DEPÉNSE
Da Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, ed. La Nuova Italia, Firenze, luglio 1971, Tomo II pag. 461-462 - Colonna di fianco: Da K. Marx, Storia delle teorie economiche, Einaudi, Torino 1955; Tomo II, Sez. III, Accumulazione di capitale e crisi, pag. 582-584

[…] Al di là di un certo punto, lo sviluppo delle forze produttive diventa un ostacolo per il capitale, ossia il rapporto del capitale diventa un ostacolo per lo sviluppo delle forze produttive del lavoro.
Giunto a questo punto, il capitale, ossia il lavoro salariato, si pone, rispetto allo sviluppo della ricchezza sociale e delle forze produttive, nello stesso rapporto del sistema corporativo, della servitù della gleba, della schiavitù, e poiché rappresenta una catena, viene necessariamente eliminato.
L'ultimo aspetto servile che l'attività umana assume, quella del lavoro salariato da una parte, del capitale dall'altra, subisce con ciò una muta radicale, e questa stessa muta radicale è il risultato del modo di produzione corrispondente al capitale; le condizioni materiali e  spirituali della negazione del lavoro salariato e del capitale, che a loro volta sono già  la negazione di precedenti forme di produzione sociale non libera, sono esse stesse risultati del processo di produzione del capitale.
Nelle contraddizioni, nelle crisi, nelle convulsioni acute, si esprime la crescente inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società rispetto ai rapporti di produzione che ha avuto finora.
La violenta distruzione di capitale, non per circostanze esterne ad esso, ma come condizione della sua autoconservazione, è la forma più incisiva in cui gli si notifica il suo fallimento e la necessità di far posto ad una superiore condizione di produzione sociale.
Né si tratta solamente dello sviluppo del potenziale scientifico, ma della misura in cui esso è gia posto come capitale fisso, dell'entità e dell'estensione in cui è realizzato e si è impadronito della totalità della produzione. E si tratta anche dello sviluppo della popolazione ecc., insomma, di tutti i momenti della produzione; giacché la produttività del lavoro, al pari dell'impiego delle macchine, e in rapporto alla popolazione, il cui sviluppo in sé e per sé è già al tempo stesso premessa e risultato dell'aumento dei valori d'uso che devono essere riprodotti, e quindi anche consumati.
Poiché questa diminuzione del profitto è sinonimo di diminuzione proporzionale del lavoro immediato rispetto alla grandezza del lavoro oggettivato, che esso riproduce e crea nuovamente, il capitale farà tutti i tentativi per arrestare la diminuzione del livello del rapporto tra lavoro vivo e grandezza del capitale, in generale, e quindi anche tra plusvalore, quando è espresso come profitto, e capitale presupposto, riducendo la parte assegnata al lavoro necessario ed espandendo ancor più la quantita di pluslavoro rispetto all'intero lavoro impiegato.
Di qui, il massimo sviluppo della produttività insieme alla massima espansione della ricchezza esistente, coinciderà con il deprezzamento del capitale, la degradazione del lavoratore, e il più esplicito esaurimento della sua forza vitale.
Queste contraddizioni conducono, naturalmente, a esplosioni, cataclismi, crisi, in cui una momentanea sospensione di ogni lavoro e la distruzione di una gran parte di capitale, lo riportano violentemente al punto in cui esso può continuare ad andare avanti impiegando pienamente le sue capacita produttive senza suicidarsi. Inoltre, queste catastrofi regolarmente ricorrenti conducono alla loro ripetizione su più larga scala, e infine al crollo violento del capitale.
Nel movimento sviluppato del capitale esistono momenti che arrestano questo movimento non con le crisi ma in modo diverso; così, per esempio, la continua svalutazione di una parte del capitale esistente: la trasformazione di una rilevante parte di capitale in capitale fisso che non funge da agente diretto della produzione; lo sperpero improduttivo di una notevole parte del capitale ecc. (Il capitale, impiegato in maniera produttiva, viene sempre duplicemente reintegrato; e infatti abbiamo visto che la valorizzazione del capitale produttivo presuppone un equivalente. Il consumo improduttivo del capitale lo reintegra da un lato e lo distrugge dall'altro*.
Che inoltre la caduta del saggio del profitto possa essere arrestata eliminando le detrazioni sul profitto, per esempio attraverso la riduzione delle imposte, la diminuzione della rendita fondiaria ecc., - questa circostanza esula dall'attuale contesto malgrado la sua importanza pratica, giacché si tratta ugualmente di porzioni di profitto sotto altro nome e fatte proprie da persone diverse dai capitalisti stessi*.
La caduta viene anche arrestata mediante la creazione di nuove branche di produzione nelle quali, in proporzione, occorre più lavoro immediato che capitale, o in cui la produttività del lavoro, ossia la produttività del capitale, non è ancora sviluppata).
(Ed anche attraverso i monopoli). […]

[…] La parola sovrapproduzione induce in errore.
Finché i bisogni più urgenti di una grande parte della società non sono soddisfatti, o lo sono soltanto quelli più immediati, non si può assolutamente parlare di una sovraproduzione di prodotti, nel senso che la massa dei prodotti sarebbe eccedente relativamente ai bisogni.
Si deve dire, al contrario, che sulla base della produzione capitalistica vi è sempre, in questo senso, una costante sottoproduzione. Il limite della produzione è il profitto dei capitalisti, non il bisogno dei produttori.
Ma sovrapproduzione di prodotti e sovrapproduzione di m e r c i sono due cose completamente distinte.
Se Ricardo crede che la forma della merce sia indifferente per il prodotto, e inoltre che la circolazione delle merci sia solo formalmente distinta dal commercio di scambio, che il valore di scambio non sia qui che una forma passeggera dello scambio materiale, e che quindi il denaro non sia che un semplice mezzo formale di circolazione, ciò deriva in realtà dalla sua ipotesi, che il modo borghese di produzione sia quello assoluto, e quindi un modo di produzione senza determinazione specifica più precisa, se non puramente formale. Egli non può dunque ammettere che il modo di produzione borghese implichi una limitazione del libero sviluppo delle forze produttive, limitazione che si manifesta nelle crisi e fra l'altro nella sovraproduzione, il fenomeno fondamentale delle crisi.
Ricardo ha visto, dai passi di Smith da lui citati, approvati e quindi parafrasati, che lo smisurato «desiderio» di ogni genere di valori d'uso viene sempre soddisfatto sulla base di uno stato, in cui la massa dei produttori resta più o meno limitata al necessario, in cui questa grandissima massa dei produttori resta dunque più o meno esclusa dal consumo della ricchezza, nella misura in cui il consumo oltrepassa la sfera dei mezzi di sussistenza necessari.
Senza dubbio ciò avveniva anche, e in grado ancora maggiore, nella produzione antica, basata sulla schiavitù.
Ma gli antichi non si sognavano neppure di trasformare il sovraprodotto in capitale. Per lo meno solo in lieve misura.
Il grande sviluppo assunto presso di loro dalla tesaurizzazione vera e propria mostra quanto sovraprodotto restasse completamente improduttivo. Essi trasformavano una grande parte del sovraprodotto in spese improduttive per opere d'arte, opere religiose, lavori pubblici.
Ancor meno la loro produzione era rivolta alla liberazione e allo sviluppo delle forze produttive materiali - divisione del lavoro, macchinario, impiego delle forze naturali e della scienza nella produzione privata. Insomma, essi non andarono mai oltre il lavoro artigiano.
La ricchezza che essi creavano per il consumo privato era dunque relativamente piccola, e appare grande solo perché ammassata in poche mani, che del resto non sapevano che cosa farne.
Se perciò presso gli antichi non vi era sovraproduzione, vi era sovracconsumo della ricchezza, che negli ultimi tempi di Roma e della Grecia eruppe in folle dissipazione.
I pochi popoli commercianti in mezzo a loro vivevano in parte a spese di tutte queste nazioni essenzialmente povere.
Da un lato l'incondizionato sviluppo delle forze produttive e quindi la produzione in massa sulla base della massa di produttori rinchiusi nel cerchio dei mezzi di sussistenza necessari, e dall'altro lato il limite dato dal profitto dei capitalisti: su queste basi si sviluppa la moderna sovrapproduzione.
Tutte le difficoltà sollevate da Ricardo ecc. contro la sovrapproduzione ecc. si basano sul fatto che essi considerano la produzione borghese come un modo di produzione in cui non esiste alcuna differenza fra acquisto e vendita, - commercio di scambio immediato, - ovvero la considerano come produzione 
s o c i a l e, così che la società ripartisce, come secondo un piano, i suoi mezzi di sussistenza e le sue forze produttive nel grado e nella misura, in cui sono necessari al soddisfacimento dei suoi diversi bisogni, così che ogni sfera di produzione riceva la quota di capitale sociale necessario a soddisfare il bisogno a cui essa corrisponde.
Questa finzione non ha origine in generale che dall'incapacità di concepire la forma specifica della produzione borghese, e questa incapacità deriva a sua volta dall'essere immersi nella produzione borghese come la produzione in se.
Così come chi crede a una determinata religione, vede in essa la vera religione e fuori di questa non vede che religioni false.... […]
 

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